La destinazione non m’importava, mi piaceva quello stare in auto per ore, fermarci dove capitava, avevo tutto il mio mondo dentro l’abitacolo: mio fratello, i nostri genitori, le cassette con la musica, cibo e acqua, una copertina… Quei tragitti infiniti nella mia memoria sono diventati un tempo a parte, in cui sono confluiti tutti i viaggi in auto, per le più disparate destinazioni, che non distinguo più.
Stavolta non trovi frasi di grandi nomi a proposito del viaggio, cito me stessa. Non perché mi consideri al pari di chi ho citato in precedenza in questa rubrica, ma per espandere una riflessione che qualche giorno fa è apparsa su Kalò Dromo, la newsletter nella quale racconto un altro viaggio, quello che mi porterà a correre la maratona di Atene.
Nell’ultimo numero ho raccontato della prima volta in cui ho sentito la parola maratona. La usava mia madre a proposito dei lunghissimi viaggi in auto che facevamo d’estate e non le piacevano granché. A me sì, al punto che desideravo si prolungassero per sempre, di non arrivare mai. Quel ricordo puoi leggerlo qui per intero.
Ci ho ripensato spesso, nei giorni scorsi, tornare a quel ricordo ha dato vita a molti altri pensieri che gli sono sorti intorno. Ho realizzato che per me viaggiare in macchina è ancora così. Anche da adulta mi piace quello spazio fisicamente limitato che attraversa spazi più vasti. Mi piace quel senso di indefinito dell’essere per la via, distante da casa ma non ancora arrivata.
Ora che sono cresciuta mi piace anche viaggiare in altri modi. Specialmente in treno. Ma quel senso d’infinito che mi dà la sospensione del viaggio in auto è rimasto intatto. A patto che guidi qualcun altro e io non debba pensare al tragitto e badare a troppe cose. Mi consente di spostare l’attenzione, lasciare andare il pensiero e lo sguardo. Si crea una sorta di bolla fatta tanto d’attesa quanto di desiderio che quello spazio a parte permanga più a lungo possibile.
La foto di apertura è di Annie Spratt/Unsplash
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